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Rabbia lucida

di Renata Molho

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Alexander McQueen (foto di Mike Goldwater)
Le immagini realizzate per «Ventiquattro» a Londra il 6 marzo 2008

Si definisce un illusionista, ha conquistato la scena velocemente, ha modificato la propria immagine personale perdendo peso e acquistando, di stagione in stagione, la credibilità necessaria per diventare una sorta di star della moda, ma ha un'idea precisa sul significato del termine successo: «È il fatto di poter fare la cosa prescelta. Amo il mio lavoro, sono felice quando lavoro». Alexander McQueen dice di non comprendere le persone il cui obiettivo è semplicemente quello di diventare famose.
Vive e lavora a Londra dove è nato nel 1969, sesto e ultimo figlio di una famiglia modesta. Il padre era tassista. La sua è stata una passione casuale per la couture; a sedici anni si ritrovò apprendista nella sartoria Anderson & Sheppard di Savile Row e questo fu un momento di formazione sostanziale per lui. Una volta scoperti i segreti del bel vestire maschile, andò a lavorare per la sartoria teatrale Angels and Barman, dove imparò i sei modi possibili per tagliare un modello del XVI secolo e i valori della precisione, dell'esatezza. Appena ventenne collabora con il designer Koji Tatsuno; nel 1990 si trasferisce a Milano per divenire assistente di Romeo Gigli. Nel 1994, per nostalgia e per il desiderio di accrescere la propria esperienza torna a Londra e si offre come tutor per il taglio dei modelli al Central Saint Martins College of Art and Design ma, visto il suo portfolio, gli viene proposto di iscriversi al master come studente. Il corso durava quattordici mesi, il tempo sufficiente per creare la collezione del diploma finale. La presentazione avvenne anche davanti a Isabella Blow, straordinaria talent scout, stylist e consulente di moda. La signora Blow, entusiasta, acquistò tutta la collezione. Da quel momento la carriera di McQueen prese il volo, e tra loro iniziò un rapporto di straordinaria amicizia.

Isabella Blow divenne la musa ispiratrice e un punto di riferimento per il giovane stilista. Isabella Blow non c'è più e McQueen le ha dedicato recentemente un'intera collezione. «Non vi sarà un'altra Isabella, mai più - dice in tono enfatico -. Era ancor più di una sorella. La nostra intesa veniva anche da una malinconia a volte connessa alla superficialità del nostro ambiente. Lei aveva la pelle fragile, io invece ho la pelle dura».
Le invenzioni sartoriali che hanno reso importante il lavoro di McQueen contenevano fin dall'inizio un'esplicita forza tratta dalla rabbia, dalla ribellione, da un senso di sovversione molto inglese, anche se sostiene che «più che British, forse mi considero anarchico». Ma sappiamo come i movimenti, le musiche e le mode giovanili più significative delle generazioni nel dopoguerra provengano dal Paese più strutturato, regolato, severo. E McQueen, utilizzando il sapere sartoriale e costruendo sui corpi femminili narrazioni di guerra, di religione, di sesso, ruppe gli schemi e divenne una sorta di leader della Nuova Scapigliatura. Le tattiche scioccanti e controverse adottate per le prime presentazioni finirono col fargli guadagnare l'appellativo di hooligan della moda inglese, dividendo il mondo in due: chi lo adorava e chi lo detestava.
«Sì, sono aggressive, parlano di disastri, guerre, morte, rovine. Sono esattamente come i tempi che viviamo - dichiara McQueen -. Possono anche essere romantiche, come i tempi che non riusciamo più a vivere. Ma sempre e ogni volta per le mie presentazioni è come se io dovessi uscire da un buco nero per mostrare il lato positivo. Provengo dalla classe operaia, ora sono circondato dal benessere. Le classi sono meno divise, o forse, invece, sono drammaticamente separate. Bisogna fare attenzione a non perdere il senso della realtà e a tenere i piedi ben saldi a terra. In India ho visto un'armonia, un rispetto e perfino una capacità di felicità fra i poveri che non avrei creduto potesse esistere».
Alla metà degli anni Novanta nella moda si viveva un momento stagnante, nel quale il bisogno di novità era tangibile. Era il 1996 quando John Galliano, altro maestro di trasgressioni di stampo anglosassone, lasciò la Maison Givenchy e Bernard Arnault, proprietario del gruppo Lvmh, non esitò a offrire il posto a McQueen. Il giovane dalle modeste origini e dall'indubbio talento non ebbe mai un buon feeling con l'effervescenza parigina. Non riusciva ad ambientarsi e la città gli sembrava un set cinematografico. Non condivideva nemmeno un certo concetto conservatore di haute couture. Arrivò perfino a definire una collezione del 1997 crap (un fallimento). Il contratto, da lui considerato un freno alla sua inventiva, durò fino al 2001.
Nel frattempo Alexander McQueen aveva già organizzato uno studio-ufficio a Londra del quale il gruppo Gucci, che dal 2000 ne possedeva il 51 per cento, lo nominò direttore creativo. Finalmente aveva la possibilità di mettersi al lavoro nella sua città, come lui sognava di fare insieme agli amici ritrovati, i compagni di scuola, gli artisti, il cappellaio stravagante Philip Tracey e la stessa Isabella Blow, tutti in sintonia con la sua indole. Le collezioni includevano prêt-à-porter donna, uomo, accessori, profumi, occhiali. Ne conseguì un'espansione con negozi flagship a New York, Londra e Milano. Dal 2006 disegna anche una linea incentrata sull'uso della tela jeans, la McQ-Alexander McQueen, prodotta e distribuita nel mondo da Sinv spa. Le collezioni Alexander McQueen sono distribuite in più di 39 Paesi. Inoltre, si sono aggiunti contratti di partnership con Puma dal 2005 e con Samsonite dal 2007.

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